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Elena Pontiggia
Il linguaggio è la cosa più contemporanea che esista. Non c’è anno che il vocabolario non registri nuove parole: un aggettivo come, per esempio, “jihadista”, che qualche anno fa non c’era, oggi lo troviamo tutti i giorni sui quotidiani.
Il linguaggio però è anche la cosa più antica che esista. Noi diciamo tranquillamente “arrivo tra dieci minuti”, magari lo scriviamo sul cellulare, ma non pensiamo che quel verbo ha un significato arcaico e ambivalente. Vuol dire “giungere a riva” ed è nato in tempi in cui il mare permetteva di incontrarsi e commerciare (Omero parla non a caso di “veloci navi”), ma andando per mare a guadagnarsi la vita si poteva anche perderla, e la riva diventava allora, tra le onde in tempesta, un miraggio disperato.
Ogni parola, tuttavia, è già un dopo. Prima ci sono le lettere, i geroglifici, gli ideogrammi, le unità minime del linguaggio, dove il segno non è ancora parola e rimane una sorta di disegno. L’aleph, per esempio (la prima lettera dell’alfabeto fenicio ed ebraico), significa “bue” perché in origine assomigliava a una testa di bue stilizzata.
Su queste unità archetipiche si è concentrata l’arte di Gaetano Grillo, che da anni raccoglie i segni dell’antico linguaggio mediterraneo e oggi li ha riuniti in un Alfabeto globale, sospeso felicemente tra architettura e scultura. A quei segni ne ha aggiunti altri contemporanei, in un repertorio senza tempo dove passato e futuro si intersecano. Lo scopo della ricerca è evidente. Grillo risale a un Alma Mater originaria e ne scopre l’affinità e l’identità dei linguaggi. Sul “mare inter terras” sono nate tante civiltà che si esprimevano in forme simili, se non in un’unica forma.
Osservando però più da vicino l’Alfabeto globale si scoprono altre cose. Intanto la scrittura con cui Grillo registra ogni segno è decisamente classica, verrebbe da dire bodoniana. Rette e circonferenze occupano il centro di ogni quadrato, di ogni tessera di mosaico, con un sottile amore della simmetria e dell’ordinata partizione spaziale. I segni, poi, sono precisi, nitidamente incorniciati nella tavola pitagorica dell’opera, con un alone d’ombra che li fa risaltare sulla superficie. Non hanno nulla a che vedere col gesto istintivo della pittura informale o con quello violento dell’espressionismo e della Bad Painting. Sono segni-disegni, ribaditi nei contorni, attenti alla regolarità delle forme.
La volontà di enumerazione e catalogazione, infine, rivela una vocazione illuminista. L’artista realizza infatti una Encyclopedie concettuale in cui i graffiti sumerici e le icone informatiche, la lettera fenicia e il logo di oggi si susseguono senza discontinuità. La regia mentale del lavoro convive però con il valore tattile e materico delle singole tessere, per cui l’Alfabeto globale è una parete di terra, che della terra ha il profumo e il peso, la concretezza e la fragilità.
Detto questo, bisogna subito aggiungere che al significato razionale di questa imponente architettura se ne affianca uno più sfuggente. Mi è già capitato di scrivere che il lavoro di Grillo è l’antitesi della torre di Babele. Là si assisteva a una incomprensione radicale tra gli artefici, qui si giunge a scoprire la familiarità, anzi l’identità, fra le diverse espressioni linguistiche. Eppure alla fine, anche se comprendiamo di avere radici comuni con gli abitanti di quello che i Romani chiamavano “mare nostrum”, scopriamo che ogni lettera e ogni alfabeto (mediterranei o no) racchiudono qualcosa di incomprensibile. Ogni segno esprime due cose: ciò che dice e ciò che non può dire. Ed è quel non detto che non smetteremo mai di cercare, anche nella Pala d’Oro di Gaetano Grillo.